A(no)nimalia

Mauro Raponi

La trasformazione del giardino zoologico in bioparco risale agli inizi del Novecento, quando le vecchie gabbie furono sostituite dai cosiddetti biomi, cioè ambienti che cercano di riprodurre l’habitat originale degli animali. Questi nuovi spazi furono progettati tenendo conto delle esigenze biologiche dell’animale e della sua fruibilità come attrazione. Per quanto sia alta la qualità del bioma, l’animale in cattività non può esprimersi secondo i suoi istinti primari come la ricerca del cibo, la difesa del territorio, l’interazione sociale e quindi la riproduzione.  Tali istinti sono inibiti, repressi insieme alle altrettanto fondamentali situazioni di paura e stress innescate dai rischi e dalle conseguenze delle stesse attività primarie. L’etologo e artista inglese Desmond Morris scrive che gli animali selvatici “non possono permettersi di rilassarsi a lungo, e l’evoluzione ha provveduto perché non lo facciano. Hanno sistemi nervosi che aborrono l’inattività e li tengono continuamente sul chi vive” (Lo zoo umano, 1969). Bloccati in un isolamento coatto, nutriti, puliti e anche intrattenuti a scopo coreografico, questi esseri senzienti divengono corpi svuotati, simulacri di se stessi, animati solo dall’istinto  di  autoconservazione che il trauma troppo diluito di una reclusione morbida non riesce a infrangere. I nomi spesso vezzosi con i quali sono battezzati, utili all’identificazione e alla personalizzazione rivolta al visitatore-bambino, sono la contraddizione beffarda di un’esistenza piatta e anonima: “Lo zoo non può che deludere.  Il suo scopo pubblico è dare ai visitatori l’opportunità di guardare gli animali. Eppure, in uno zoo, il visitatore non incontrerà mai lo sguardo di un animale. Al massimo, quello sguardo è un lampo passeggero.”. (John Berger, Perché guardiamo gli animali, 1977). L’animale si sottrae al voyeurismo umano, costretto al ruolo di attrazione vivente, sembra dissimulare, fugge, o vorrebbe farlo forse da se stesso. Se da una parte potrebbe apparire ingenuo proiettare sentimenti umani su esseri di cui, in effetti, non possiamo comprendere le percezioni, dall’altra non possiamo negare l’evidenza di certi comportamenti apatici o ripetitivi come segnali d’insoddisfazione e sofferenza, come riempitivi nevrotici di una quotidiana cattività: “l’animale cammina avanti e indietro, avanti e indietro fino a tracciare un solco con i suoi passi ritmici e sterili. Anche questo è già meglio di niente” (D. Morris, ibidem). Quel “niente”, che a noi suona come vuoto esistenziale, anche per l’animale deve essere riempito, anche per la sua breve memoria deve avere una sua durata. Il tempo è dunque la misura comune delle nevrosi animali e umane, è il grande contenitore che noi uomini siamo tanto indaffarati a riempire in ogni modo possibile, perché l’horror vacui è la maggiore insidia per la mente. L’animale-uomo fugge da sempre il vuoto, fugge il nulla sul quale basta soffermarsi un momento col pensiero per avvertire presto un’impasse intellettuale, un disagio che può farsi angoscia. Gli animali in cattività sembrano esprimere allora una “saggezza” che solo gli uomini possono cogliere. Il meccanismo articolato in cui viviamo noi oggi, fatto di desideri, emozioni, relazioni, movimenti, è la declinazione umana di “cattività”, sono il nostro bioma nel quale cerchiamo continuamente stimoli vitali per sfuggire al vuoto indotto dal livellamento culturale degli istinti, dall’idea che le nostre nevrosi sono la plausibile conseguenza di un’urbanizzazione troppo repentina rispetto alla nostra evoluzione biologica.

Bio
Nato a Roma nel 1966, ha formazione artistica e storico-artistica. Interessato da sempre alle immagini e ai linguaggi visivi, ha esplorato diversi ambiti creativi quali pittura, video e fotografia. Come fotografo ha realizzato alcuni progetti fotografici fra i quali Museo Unico (2016) e dal 2014 coordina laboratori fotografici presso l’associazione culturale Officine Fotografiche di Roma. Come regista dal 2001 al 2011 ha diretto l’intera serie del programma televisivo d’arte e cultura Passepartout, ideato insieme al critico Philippe Daverio per la Rai. Ha diretto e montato inoltre vari documentari d’arte fra i quali: JanFabre/Hermitage, sulla grande mostra dell’artista belga presso il museo di San Pietroburgo (2017); Padova – Città della comunicazione, per il comune di Padova (2015); La Reale Villa di Monza – Il restauro completato (2014); Il mestiere del costruire (2012) per Inarcassa; La Galleria d’Arte Marconi (2003); L’arte del collezionare – La Collezione Panza di Biumo, per il FAI (2001).
Dal 2012 collabora con la coreografa e ballerina Benedetta Capanna realizzando video per coreografie di danza contemporanea.
In passato ha svolto attività di critica d’arte collaborando con la rivista d’arte contemporanea Terzoocchio di Bologna, curando alcune mostre personali e collettive di pittura e scultura in spazi pubblici e privati.
E’ laureato in Lettere con indirizzo storico-artistico.

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