Leggere Ghirri
A cura di Davide Tatti
Per suggellare la serie di iniziative che commemorano il trentennale dalla scomparsa di Luigi Ghiri nel 1992, viene presentato il film e documentario Infinito, diretto da Matteo Parisini. Il regista pone su tre binari paralleli il percorso biografico di Ghirri, la sintesi della ricerca in fotografia, e gli scritti di Ghirri che, letti dalla voce fuori capo, informano tutto il film del suo pensiero. Il racconto, che mette in scena delle testimonianze di alcuni tra coloro che hanno lavorato con Ghirri, procede in ordine diacronico con alcune anticipazioni e un unico flashback finale, la morte improvvisa di Ghirri viene sostituita dall’apparizione improvvisa della sequenza fotografica Infinito, che realizzata nel 1974, contiene le immagini dei cieli scattate ogni giorno dell’anno, metafora della variabilità indefinita di ogni fotografia e del mondo. In questo film il concetto di infinito indica anche lo sguardo che si pone oltre il mondo materiale, per sostituire il vuoto lasciato dalla morte; perciò, la vicenda di Ghirri viene inserita in una prospettiva spirituale, la quale rappresenta però un punto di vista appartenente più al regista Parisini che allo stesso Ghirri.
Gli scritti di Ghirri, composti dal 1973 al 1989, hanno un’importanza centrale nella sua produzione, perché definiscono negli anni l’elaborazione delle sue idee sulla fotografia, inoltre illustrano l’ambito delle frequentazioni e delle attività culturali, raccontano i luoghi e paesaggi marginali o della “sua” provincia in Emilia. La prima pubblicazione integrale degli scritti che risale 1997, fu curata da Giovanni Chiaramonte e Paolo Costantini, che raccolsero gli articoli già editi in altre pubblicazioni e alcuni dattiloscritti. I testi furono affiancati da alcune fotografie di Ghirri, che fornirono evidenza alle parole1.
Dopo più di un decennio l’attenzione editoriale si sposta verso le lezioni universitarie, che Ghirri tenne a Reggio Emilia tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ‘90. L’edizione in volume restituì ai lettori la “lezione” che Ghirri trasmise ai fotografi suoi contemporanei e a quelli della generazione successiva: ridefinire la fotografa di ambiente, architettura e paesaggio come centrata sull’analisi del contesto, superando lo schema del soggetto isolato ed esteticamente enfatizzato2.
Gli scritti di Ghirri venivano riproposti dall’editore Mack di Londra in traduzione inglese nel 2016, curati da Francesco Zanot3. Mack si era già interessato a Ghirri ristampando alcuni anni prima Kodachrome, il primo libro fotografico di Ghirri del 1978. L’obiettivo della visione che è uno tra i più noti scritti di Ghirri, veniva ristampato successivamente in Italia da Henry Beyle4. L’incipit del testo contiene un concetto portante: la presenza del soggetto umano, anche con un ruolo marginale, in una fotografia di paesaggio conferisce la misura della realtà al luogo rappresentato nell’immagine. Scrive Ghirri:
«Fin da bambino, le fotografie che mi piacevano maggiormente erano quelle di paesaggio, che vedevo intercalate negli atlanti con le carte geografiche. Mi affascinavano particolarmente queste fotografie, dove immancabile, immobile, appariva un piccolo uomo sovrastato da cascate, monti, rocce, alberi altissimi e palme grandiose, o sul ciglio di un burrone. (…) Quello dell’omino era uno stato di continua contemplazione del mondo, e la sua presenza nelle immagini conferiva a queste un fascino particolare. Non solo era il metro di misurazione delle meraviglie rappresentate, ma grazie a questa unità di misura umana mi restituiva l’idea dello spazio; io lo vedevo in questo modo e credevo attraverso questo omino di comprendere il mondo e lo spazio.» 5
L’obiettivo della visione venne pubblicato dalla rivista di architettura Lotus nel 1986, con la quale Ghirri collaborò a partire dalla commissione di un servizio fotografico, che lui fece sul cimitero di Modena progettato da Aldo Rossi. Ghirri fu portavoce di un cambiamento essenziale nella distinzione tra progetto e fotografia di architettura: il disegno del progetto ha una scala globale e una misura oggettiva dello spazio, la rappresentazione fotografica implica invece uno sguardo parziale e condizionato dalla percezione soggettiva del luogo.
Recentemente Lotus pubblica questo testo con un nuovo commento di Giovanni Chiaramonte, che attribuisce particolare rilievo all’idea di infinito in Ghirri, in modo simile a Matteo Parisini. Infinita è la capacità di rinnovare l’attenzione verso un mondo non delimitabile, scrive Chiaramonte: «lo sguardo aperto all’infinito, pieno di domande, che fa di ogni faccia un volto e di ogni uomo una persona.6 (…) Per Ghirri l’atto che rivela la figura e la concretezza del reale non può essere l’ingrandimento materiale della fotografia, bensì l’ingrandimento concettuale dell’immagine, dato alla visione attraverso lo specifico del narrare: nella sequenza Infinito le trecentosessantacinque fotografie disposte su due giganteschi pannelli riflettono la cangiante cromaticità e temporalità dei cielo, affermando che il reale può tornare a essere visibile e raffigurabile solo nel riconoscere il mistero della sua assoluta non delimitabilità».7
Francesco Zanot con l’editore Quodlibet ripresenta gli scritti di Ghirri un anno fa: i testi sono invariati rispetto alla prima edizione, ma con l’aggiunta delle interviste, le immagini a corredo vengono eliminate. Per Zanot gli scritti sono autonomi: «da fotografo, Ghirri scrive testi che non hanno bisogno di accompagnarsi a fotografie, unendosi a una ristretta cerchia di artisti capaci di una simile impresa».8 Una parte di questi testi ha un’evidente autonomia dagli apparati visivi, altri invece contengono frequenti richiami alle fotografie inserite nelle pubblicazioni originali.
L’ultima edizione di questi scritti ha suscitato l’interesse di numerosi recensori, tra questi Andrea Cortellessa ne evidenzia la densità concettuale: «Al di là delle loro apparenze casual, cioè dalla matrice per lo più occasionale e volatile, come ogni sua fotografia ogni pagina di Ghirri è portatrice del suo pensiero9». Tra i temi più poetici in Ghirri, viene considerato da Cortellessa la scomparsa delle esperienze dirette, che avviene quando l’eccesso di produzione delle immagini e di vari surrogati si sostituisce al mondo e alla realtà. In un precedente intervento Cortellessa ricompone il percorso di Ghirri che, negli anni Settanta legandosi ad artisti concettuali emiliani, perseguì il tema della «dialettica fra rappresentazione segnica del mondo e sua riproduzione diretta»10. Adriano Spatola, che Ghirri conobbe, nel saggio Verso la poesia totale, scriveva che «il poeta oggi si trova di fronte a una realtà già scritta, a un mondo coperto di segni, e la poesia consiste ormai quasi soltanto nell’utilizzazione a fini estetici di questo repertorio illimitato».11 Anche nelle arti visive concettuali durante gli anni Settanta l’attenzione non si pone nell’esperienza diretta ma sul riutilizzo di segni e simboli, così Ghirri scrive in Atlante: «In questo lavoro ho voluto compiere un viaggio nel luogo che invece cancella il viaggio stesso, proprio perché tutti i viaggi possibili sono già descritti e gli itinerari sono già tracciati. (…) Così analogamente il solo viaggio possibile sembra essere oramai all’interno dei segni, delle immagini: nella distruzione dell’esperienza diretta».12
Il passaggio dall’analisi concettuale di segni e simboli all’interpretazione di luoghi e ambienti, è avvenuta in Ghirri negli anni Ottanta con un cambio di paradigma: «la rivoluzione copernicana di Ghirri consiste nel fare delle sue griglie, di questi segni, traguardi, confini entro cui lo spazio si appresenta delle “soglie” (come scriverà quasi in limine, nel ’90) “la soglia per andare verso qualcosa”13». Tale ricostruzione dello spazio prospettico e delle memorie viene ricondotta da Cortellessa, sulla scorta degli scritti di Gianni Celati, ad una rappresentazione scenica: «Pare a me che la sfera della memoria sia vissuta e raffigurata, da Ghirri (…) in modo illusionistico e catottrico, barocco in senso appunto wellesiano: cioè teatrale»14.
Marco Belpoliti con la sua recensione15, individua nel testo di Ghirri del 1986 Fotografia e rappresentazione dell’esterno la consapevolezza che la fotografia venga fagocitata dalle nuove tecnologie digitali di riproduzione sostitutiva della realtà. Diventa invece necessario perseguire una via alternativa dove «la fotografia può essere non un marginale momento di pausa e di riflessione, ma un necessario momento di riattivazione dei circuiti dell’attenzione, fatti saltare dalla velocità dell’esterno»16. La volontà di ricomporre il rapporto alienante tra soggettività e mondo esterno diventa un fattore determinante: «Ghirri si propone di recuperare la frammentazione del reale, includendo tutto questo nella sua opera, poiché il mondo esterno e il mondo interno sono per lui la medesima cosa»17. Ghirri di fronte ai suoi modelli culturali assimila la capacità di sintesi tra mondo esteriore e interiore: «la fotografia americana, non meno di Deserto rosso di Antonioni e di La strada di Fellini, ci invita a raccogliere la sfida della contemporaneità e del presente, ci insegna a costruire la nostra identità che è dentro e fuori di noi, in una singolare sintesi di mondo esterno ed interno. E in questo statuto di necessità, per l’immagine, mi sembrava di leggere anche i valori etici, di un progetto che non riguardava solamente la rappresentazione, ma che riguardava anche il vivere».18
Negli scritti di Ghirri, oltre alle riflessioni sul ruolo della fotografia, è rilevante la sua visione del mondo e della realtà oggettuale, che nell’arco di due decenni compie una decisiva evoluzione. Durante gli anni Settanta il mondo viene recepito come frammentazione, caos, ripetizioni di analoghi, geroglifici indecifrabili, nuova Babele. Ghirri adopera la metafora del Labirinto fisico e mentale per definire il reale: «L’incontro quotidiano con la realtà, le finzioni, i surrogati, gli aspetti ambigui, poetici o alienanti, sembra negare ogni via d’uscita dal labirinto, le cui pareti sono sempre più illusorie tanto che ci potremmo confondere con queste»19. La complessità del reale non trova una rappresentazione esaustiva, la fotografia è per Ghirri un tentativo di ricomposizione dei frammenti, che poi ritorna nel mondo caotico: « Considero la realtà complessa e articolata e non riducibile (…) L’operazione che faccio è quella infatti di ricomporre, con metodo, pezzo per pezzo una immagine leggibile (…) L’immagine che si completa alla fine, non diventa soluzione dell’enigma, perché lo stesso puzzle ricomposto viene rimesso di nuovo nel flusso dell’esistenza, e diventa ulteriore tessera da collocare »20. La metafora del labirinto è quella già adoperata da Italo Calvino, che in uno scritto del 1962 vede nella letteratura la possibilità di resistere al caos e alla mancanza di senso: «Quel che la letteratura può fare è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro»21.
Progressivamente negli anni Ottanta in Ghirri prevale la volontà di confrontarsi e di comprendere il mondo: «Ho sempre ritenuto che la fotografia fosse un linguaggio per vedere e non per trasformare, occultare, modificare la realtà»22. Il modo reale pur conservando i tratti di frammentazione, diventa oggetto di attenzione con la costruzione visiva di un paesaggio, il quale pone delle relazioni e una coerenza alle moltitudini di fenomeni estranei e in conflitto tra loro. Scrive Ghirri: «Certamente le categorie della quantità, della ripetizione, (…) si presentano come, un geroglifico impossibile, una moderna terra di Babele (…). Forse per questo io affido a frammenti dispersi, intuizioni, piccoli mutamenti della luce, all’evidenza di un colore, al particolare di una facciata, ad un suono o ad un odore raccolto, il compito di trasformarsi in piccole certezze, un insieme di punti da unire tra di loro per tracciare un itinerario possibile, come fossero i sassi di Pollicino, per ritrovare una strada»23. Il labirinto della realtà è diventato più comprensibile ad uno sguardo che sa adattarsi ai contesti senza schemi precostituiti: «In fondo in ogni visitazione dei luoghi portiamo con noi questo carico di già vissuto e già visto, ma lo sforzo che quotidianamente siamo portati a compiere è quello di ritrovare uno sguardo che cancella e dimentica l’abitudine; non tanto per rivedere con occhi diversi, quanto per la necessità di orientarsi di nuovo nello spazio e nel tempo»24. Durante gli ultimi suoi anni Luigi Ghirri indica come finalità della fotografia quella di mantenere e incrementare il «campo di attenzione»25 verso il modo, perché altrimenti con l’incapacità di saper leggere e interpretare i luoghi, si avrebbe la «sparizione del paesaggio»26.
15 dicembre 2022
Note:
1 Luigi Ghirri, Niente di antico sotto il sole. Scritti e immagini per un’autobiografia. A cura di Paolo Costantini e Giovanni Chiaramonte. Torino: SEI, 1997.
2 Luigi Ghirri, Lezioni di fotografia, a cura di Giulio Bizzarri e Paolo Barbaro; con uno scritto biografico di Gianni Celati. Macerata, Quodlibet, 2010.
3 Luigi Ghirri, The Complete Essays, 1973-1991. A cura di Francesco Zanot. London, Mack, 2016.
4 Luigi Ghirri, L’obiettivo nella visione. Milano, Henry Beyle, 2019.
5 Luigi Ghirri, Niente di antico sotto il sole: scritti e interviste, 1973-1991; introduzione di Francesco Zanot. Macerata, Quodlibet, 2021.
6 Luigi Ghirri, L’obiettivo nella visione. Introduzione di Michele Nastasi, Con un testo di Giovanni Chiaramonte. Milano, Editoriale Lotus, maggio 2022. Cit. pag. 31. Prima edizione in: Lotus International, n. 52, 1987; pag. 129-134
7 Luigi Ghirri, L’obiettivo nella visione. Ibidem, cit. pag. 35
8 Luigi Ghirri, Niente di antico sotto il sole (…) introduzione di Francesco Zanot, cit. pag. 21
9 Andrea Cortellessa, Svanire: Ghirri. In: Antinomie, 4 settembre 2021
10 Andrea Cortellessa, Luigi Ghirri: dall’atlante al mondo. In: Le parole e le cose, 23 gennaio 2018. In: Le pietre del cielo, Luigi Ghirri e Palo Icaro. Mantova, Corraini edizioni, pag. 21
11 Adriano Spatola, Verso la poesia totale. Salerno, Rumma, 1969, cit. pag. 139
12 Luigi Ghirri. Atlante. 1973, in: Niente di antico sotto il sole. Quodlibet, cit. pag. 47
13 Andrea Cortellessa, Luigi Ghirri: dall’atlante al mondo. Ibidem.
14 Andrea Cortellessa, Luigi Ghirri: dall’atlante al mondo. Ibidem.
15 Marco Belpoliti. Niente di antico sotto il sole / Luigi Ghirri, né genius loci né postmoderno. In: Doppiozero, 26 maggio 2021
16 Luigi Ghirri. Fotografia e rappresentazione dell’esterno. in: Niente di antico sotto il sole. Quodlibet, cit. pag. 127
17 Marco Belpoliti. Niente di antico sotto il sole / Luigi Ghirri, né genius loci né postmoderno. Ibidem
18 Luigi Ghirri. L’obiettivo della visione. in: Niente di antico sotto il sole. Quodlibet, cit. pag. 161
19 Luigi Ghirri. Prefazione a Kodachrome, 1978. In: Niente di antico sotto il sole. Quodlibet, cit. pag. 31
20 Luigi Ghirri. Vedute 1970-1979. In: Niente di antico sotto il sole. Quodlibet, cit. pag. 53
21 Italo Calvino, La sfida al labirinto. In Menabò, n. 5, 1962. Ora in: Italo Calvino, Una pietra sopra: discorsi di letteratura e società. Torino, Einaudi, 1980. Nuova edizione, Milano, Mondadori, 2016
22 Luigi Ghirri. L’opera aperta. 1984. In: Niente di antico sotto il sole. Quodlibet, cit. pag. 121
23 Luigi Ghirri. L’obiettivo della visione. 1987. In: Niente di antico sotto il sole. Quodlibet, cit. pag. 162-163
24 Luigi Ghirri. Paesaggio italiano. 1989. In: Niente di antico sotto il sole. Quodlibet, cit. pag. 236
25 Luigi Ghirri. Una luce sul muro. 1991. In: Niente di antico sotto il sole. Quodlibet, pag. 256
26 Luigi Ghirri. Una luce sul muro. 1991. Ibidem